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intendevano abolire la democrazia come quelli degli anni trenta del secolo scorso, ma anzi
utilizzarla. Krastev individuava un conflitto tra le elites che si allontanavano dai valori
democratici e le società arrabbiate che divenivano sempre più illiberali e riportava le statistiche
Gallup secondo le quali solo un terzo della opinione pubblica globale riteneva che la propria
voce fosse ascoltata dai rispettivi governi.
In un altro famoso articolo del 2011, Krastev scriveva la famosa frase :”siamo testimoni di una
specie di 1968 alla rovescia, chi si ribella non si oppone allo status quo di ieri, ma lo vuole
preservare”. Le nuove generazioni chiedono la stessa ricchezza, lo stesso benessere dei loro
genitori. E’ proprio l’apertura delle nostre società che porta alla sfiducia a causa
dell’inefficienza delle istituzioni democratiche.
Nel settembre del 2013 la rivista Foreign Affairs pubblica una recensione del libro di Joshua
Kurlantzick dal titolo :”la democrazia in ritirata : la rivolta della classe media e il declino
globale del governo rappresentativo”. L’autore sostiene che la democrazia sta soccombendo in
ogni regione del mondo e che molti paesi in cui questo avviene si stanno trasformando in
potenze regionali, come il Kenya, il Messico, la Nigeria e la Russia. Inoltre gli stati autoritari
come la Russia e la Cina stringono le loro tenaglie. La responsabilità della “recessione
democratica”; non viene attribuita solo alla caduta della crescita economica, ma anche ai
travagli della modernità : la disuguaglianza economica, sistemi di welfare deboli, degrado
ambientale, migrazioni di popoli. Questi fattori sono sfruttati dai regimi autoritari per ottenere
il supporto delle classi medie spaventate. L’autore si spinge a sostenere che i regimi non
democratici diventeranno modelli alternativi di autorità politica.
Del resto poche settimane erano passate dalle dichiarazioni pubbliche del governo cinese che
sostenevano la superiorità del modello del partito unico rispetto alla democrazia di tipo
occidentale.
L’articolo attuale più sensazionale rimane secondo me quello dell’Economist del 29 giugno del
2013, intitolato “La marcia della protesta”. Dal Brasile che si solleva contro l’aumento delle
tariffe degli autobus, la Turchia in piazza contro i progetti di costruzioni, in Indonesia contro i
prezzi del carburante, in Bulgaria contro la corruzione, nella zona euro contro l’austerità e nel
mondo arabo contro l’intero sistema.
Un momento di passaggio storico, come nelle rivoluzioni del 1848, le prese di coscienza sociali
del 1968 e il crollo del regime sovietico nel 1989, anche oggi le società scoprono una voce
comune, velocemente, da un paese all’altro, addirittura le proteste sono più attive nelle
democrazie che nelle dittature, chi protesta è la gente comune, la classe media, chi ha
richieste generali e non particolari.
Le caratteristiche di questo momento storico sono che il ritmo della protesta viene accelerato
dai mezzi tecnologici attuali, la contestazione non è organizzata da sindacati o centri di potere,
ma anche da piccoli gruppi di persone decise, da movimenti spontanei, che a volte scompaiono
con la stessa rapidità con la quale sono comparsi, come Occupy. Sono proteste causate dallo
scontento, dai fallimenti dei governi, delusioni diffuse che hanno preso il posto dell’opposizione
politica spiazzata anch’essa. Popolazioni che si aspettavano che il trend della crescita e della
prosperità fosse infinito, si sono ritrovate, come in Brasile, a veder crollare il prodotto interno
lordo dal 7,5 percento allo 0,9 percento e quaranta milioni di brasiliani usciti dalla povertà
durante gli scorsi otto anni, adesso voglio verificare dove vanno a finire le loro tasse. In India
sono in piazza i giovani a protestare contro la violenza sulle donne, in Turchia i giovani
contestano i divieti di origine religiosa,.
L’articolo si chiede infine dove tutto questo condurrà nella nuova realtà di una democrazia più
complessa, in cui da un momento all’altro le piazze si possono riempire di milioni di persone.
La speranza è che le democrazie mantengano la capacità di adattarsi e che i politici accettino
che le società si aspettano il meglio, almeno per garantirsi la rielezione.